Giuliano Bruno: la secessione da un’epoca vile
di Alberto Prunetti

Italia,
nordest, febbraio 2007. Giuliano Bruno
è un liceale antifascista. Di
ritorno da una manifestazione a Treviso viene aggredito e picchiato da
un gruppo di Skinheads neofascisti.
Giuliano non esce più di casa, ha paura.
Da quell’episodio passano alcuni giorni, gli amici lo invitano a
uscire. Partono in macchina, vanno verso il centro di Treviso, uno di
loro scende, va in cerca di un altro compagno. Poi torna e dice a
Giuliano: "Non uscire! Stanno arrivando gli Skinheads!" Arrivano.
Aprono la porta della macchina. Giuliano è rimasto dentro assieme a un
altro ragazzo. Gli chiedono: "Sei Giuliano Bruno?". "Sì, sono io".
Lo colpiscono con violenza in testa. L'amico prova a difenderlo. Gli rompono il naso.
Dopo la seconda aggressione Giuliano lascia la scuola, non vuole più
stare nel trevigiano. Comincia a vagabondare per l’Europa. Partecipa
alla manifestazione contro il G8 di Haligendamm, in Germania. Torna in
Italia, trova alcuni lavori occasionali. Poi riprende a studiare,
questa volta a Trieste.
La mattina del 5 maggio 2008 lo trovano a terra, sotto casa sua. Suicida.
Da Buenos Aires a Treviso
La famiglia di Giuliano Bruno era riparata in Europa negli anni
Settanta per sfuggire alla dittatura pseudo-fascista argentina. La
storia di Giuliano si lega a quella di suo nonno, Osvaldo Bayer, uno dei più noti scrittori argentini.
"Mi davano 24 ore di tempo per lasciare il paese altrimenti ero un
uomo morto…". Così Osvaldo Bayer, nato a Santa Fe, Argentina, nel 1927,
mi raccontava la storia della sua condanna a morte, pubblicata su un
giornale di Buenos Aires e sentenziata da un gruppo clandestino di
estrema destra nel 1974. All’epoca dell’intervista, poi pubblicata su Il Manifesto,
ero andato a trovarlo a casa sua, nel quartiere Belgrano, in quella
casa d’angolo della città rioplatense che il suo amico Osvaldo Soriano,
eterno provocatore, definiva un tugurio. Era l’autunno del 2005 e
Buenos Aires mi veniva incontro con le parole di questo vecchio con la
barba bianca e lunga, autore del romanzo “Severino Di Giovanni” (1970),
della "Patagonia Rebelde" (1972, di prossima uscita in italiano per
l'editrice Elèuthera) e, in tempi più recenti, di “Rayner y Minou”
(2001).
L’idea era quella di farmi raccontare da Osvaldo la sua vita e le
ricerche storiche dedicate all’emigrazione politica italiana, che lo
avevano portato a scrivere libri stupendi, opere tanto radicali che i
militari — conquistato il potere a Buenos Aires con un colpo di stato
negli anni Settanta — non si accontentarono di costringerne l’autore
all’esilio, ma arrivarono a dare alle fiamme ogni esemplare che
riuscivano a rastrellare. Infine, perché la misura fosse colma,
proibirono il film tratto da un romanzo di Osvaldo e che lui stesso
aveva sceneggiato, la “Patagonia rebelde”, di Héctor Olivera, Orso
d’argento a Berlino eppure proibito in patria con tanto di persecuzioni
rivolte contro tutto lo staff, incluse le comparse. Eccessi argentini
sembravano a quei tempi, quando io e Osvaldo discorrevamo di tempi
passati e lontane persecuzioni.
Ricordo che mi sentii indiscreto quando, parlando dello scrittore
desaparecido Rodolfo Walsh, mi venne da chiedere un dettaglio troppo
forte sulla sua morte. Le lacrime che per un attimo bagnarono gli occhi
di Osvaldo non turbarono la sua lucidità, perché lui stesso, come
Walsh, si è fatto carico di scrivere in tempi difficili.
Eppure Osvaldo, costretto alla fuga, obbligato a nascondersi in casa
di anarchici, sempre pronto a organizzare progetti di cospirazioni
contro le dittature — come quella volta che organizzò assieme a Soriano
e García Márquez il progetto, poi rimasto sulla carta, di un ritorno in
massa di intellettuali esuli latinoamericani — non avrebbe pensato, in
quella tranquilla mattina portegna, di dover ancora una volta scrivere
parole tanto amare. Ancora scrivere di perseguitati, di ammazzati, di
amici costretti al suicidio per sfuggire alle torture, per bere da soli
il calice amaro di un’epoca vigliacca. È il violento “oficio de
escribir, amigo”, gli avrebbe ricordato Walsh. La testimonianza di
scrivere, di farsi violenza a scrivere, di scrivere su fatti violenti.
Un’epoca che sembrava chiusa e che invece costringe Osvaldo, a cui le
Madres de Plaza de Mayo hanno dedicato il loro caffè letterario, a
scrivere ancora, a riempire d’inchiostro quelle pagine bianche che ogni
mattina, alle sei in punto, cominciano a presentarsi sulla sua
scrivania.
Ma questa volta il compito è più amaro. Perché il giovane rebelde,
una figura che ricompare in tante pagine dell’opera di Osvaldo, non è
un anarchico nato un secolo fa, né un martire di un’idea che arriva a
Baires dai barconi transoceanici. Questa volta Osvaldo scrive di suo
nipote, di Giuliano Bruno, il figlio di sua figlia Ana, che ancora
piccola lui fece montare in fretta e furia su un aereo diretto in
Europa perché non conoscesse gli orrori e le violenze orchestrate da un
gruppo di fascisti con in mano le redini dello stato. Tragico paradosso
e lugubre scherzo del destino, quello che ha portato il giovane rebelde
in questa Italia che da terra d’accoglienza per gli esuli e i rifugiati
politici si fa spazio di persecuzione.
Perché Giuliano Bruno non è stato ammazzato come Carlo Giuliani, né
come Nicola Tommasoli. Non è morto neanche come quel rumeno di cui
nessuno ricorda più il nome — forse perché gli stranieri in questo
paese sono privati anche del loro nome — e che è cascato dalla finestra
di una questura, o forse era la tromba delle scale, e tanto chi se ne
frega, diranno i giornali che a questa notizia non dedicano quasi
neanche un trafiletto. Giuliano Bruno è morto respirando ogni giorno
quest’atmosfera che viviamo in Italia, questo misto di nebbia di
Weimar, di paura argentina e di grottesca farsa italiota. Condita dai
pogrom e dai rigurgiti neorazzisti, dagli assalti delle teste rasate,
dall’intolleranza verso tutto ciò che non sia la voglia di fregare il
prossimo per comprarsi il Suv. Un’epoca agra e triste, una “mala notte”
a cui Giuliano ha reagito con l’ultimo gesto del ribelle, quello che
rivendica il proprio diritto di secessione da un mondo tanto vile e
letale.